Il Ruanda: breve racconto di un'avventura breve
Il racconto della mia avventura in catena di montaggio mi è venuto spontaneo, ascoltando la canzone dei MCR che parlava di operai e di fabbrica. Il racconto del Ruanda, invece, è stato un parto un po’ più difficile. Il Ruanda, per fortuna, è stato solo una breve parentesi della mia vita professionale. Il Ruanda ha rappresentato l’iniziazione alla professione, una prova di fuoco, un antipasto di quello che sarebbe venuto subito dopo, cioè la Somalia e la sua guerra infinita. Ma mentre in Somalia, nonostante la guerra non sia mai finita, si rideva ogni giorno, in Ruanda no. La guerra era finita, ma c’era poco da ridere. L’atmosfera era intrisa di dolore, la gente era cupa, triste. Nonostante in Somalia mi abbiano sparato, abbia rischiato la vita più d’una volta, abbia perso colleghi ed amici per colpa del piombo o di altre malattie, ne serbo un ricordo bello. Del Ruanda, nonostante non mi sia successo nulla, ne serbo un brutto ricordo.
Corre l’anno 1997 e mi ritrovo in Ruanda. Il genocidio è finito da 3 anni ormai, ma l’aria è tetra, l’atmosfera pesante. Appena sbarcato ho già voglia di andarmene. Devo sostituire un veterinario in un progetto per il miglioramento della razza caprina autoctona. La sede dell’organizzazione che mi ha assunto è a Gahini, un paesino situato nella prefettura di Kibungo, non lontano dalla capitale Kigali. A Gahini non c’è nulla da fare oltre al lavoro. La sera si cena con i colleghi, si beve qualche birra, si guarda la televisione. Internet in Africa è ancora un miraggio. Una sera, per cambiare, vado a bermi una birra con Jean, un collega ruandese. La conversazione langue e allora, azzardo la domanda più stupida che si possa fare in Ruanda: dove eri durante il massacro?
Jean comincia a parlare. Lui viveva a Gahini e faceva il veterinario, quando fu abbattuto l’aereo del Presidente, segnale dell’inizio del massacro dei tutsi ad opera di fanatici hutu. Il commando di hutu arrivò quasi subito a Gahini e tutti i tutsi si rifugiarono nella chiesa del paese. Gli hutu buttarono un po’ di bombe a mano nella chiesa e poi entrarono per finire i sopravvissuti. Il comandante del commando si mise a sedere sopra Jean e da quella postazione indicava ai suoi uomini chi si muoveva per finirlo con qualche colpo di machete. Poi si alzò, e tutti se ne andarono. Jean fu l’unico a sopravvivere a quel massacro. Ma aveva paura e decise di nascondersi nella latrina della prima casa che trovò. Si immerse con tutto il corpo nella merda, con la gente che gli pisciava e gli cagava addosso. Dopo qualche giorno, una bambina lo scoprì, e cominciò a portargli ogni giorno un po’ di banane e qualche bottiglia d’acqua. Poi la guerra finì e lui uscì dalla merda. Si portò addosso l’odore della merda per un lungo periodo.
Finisce il suo racconto e nel suo sguardo credo di notare una scintilla di pazzia… Non ho parole. Mi maledico per la mia stupidità e giuro che non farò mai più domande del genere. Lascio Jean da solo con i suoi ricordi e la sua birra e me ne vado.
Durante la mia permanenza in Ruanda, gli hutu cacciati dall’esercito tutsi cominciano a tornare. Scattano vendette, uccisioni e gli operatori umanitari sono bersagli. In quei giorni (gennaio/febbraio 1997) vengono uccisi 3 spagnoli dei Medici del Mondo, poi 4 funzionari dell’Alto Commissariato per i Rifugiati. Ci sono vari attacchi ad organizzazioni umanitarie. La situazione è veramente pesante e di notte non riesco a chiudere occhio. Voglio andarmene. Conto i giorni che mancano alla partenza. Voglio andarmene e la Somalia mi pare un posto migliore di questo.
Finalmente arriva il giorno della mia partenza e ho la sensazione di essermi salvato. Lascio uscire tutta la tensione accumulata in quelle settimane. Arrivo a Nairobi, dove passo una notte e la mattina presto, proseguo per la Somalia con un volo umanitario. Arrivo a Mogadiscio. C’è il sole, il mare, e un sacco di ragazzi armati fino ai denti seduti sulle tecniche. Ma chissà perché, mi trovo subito bene.
E la corsa? Oggi, 12 chilometri in giro per il centro di Roma a 4’30”. Al biscotto ho incontrato il mitico Gian Luca con un suo amico. Lo vedo bene: domenica andrai alla grande!
Corre l’anno 1997 e mi ritrovo in Ruanda. Il genocidio è finito da 3 anni ormai, ma l’aria è tetra, l’atmosfera pesante. Appena sbarcato ho già voglia di andarmene. Devo sostituire un veterinario in un progetto per il miglioramento della razza caprina autoctona. La sede dell’organizzazione che mi ha assunto è a Gahini, un paesino situato nella prefettura di Kibungo, non lontano dalla capitale Kigali. A Gahini non c’è nulla da fare oltre al lavoro. La sera si cena con i colleghi, si beve qualche birra, si guarda la televisione. Internet in Africa è ancora un miraggio. Una sera, per cambiare, vado a bermi una birra con Jean, un collega ruandese. La conversazione langue e allora, azzardo la domanda più stupida che si possa fare in Ruanda: dove eri durante il massacro?
Jean comincia a parlare. Lui viveva a Gahini e faceva il veterinario, quando fu abbattuto l’aereo del Presidente, segnale dell’inizio del massacro dei tutsi ad opera di fanatici hutu. Il commando di hutu arrivò quasi subito a Gahini e tutti i tutsi si rifugiarono nella chiesa del paese. Gli hutu buttarono un po’ di bombe a mano nella chiesa e poi entrarono per finire i sopravvissuti. Il comandante del commando si mise a sedere sopra Jean e da quella postazione indicava ai suoi uomini chi si muoveva per finirlo con qualche colpo di machete. Poi si alzò, e tutti se ne andarono. Jean fu l’unico a sopravvivere a quel massacro. Ma aveva paura e decise di nascondersi nella latrina della prima casa che trovò. Si immerse con tutto il corpo nella merda, con la gente che gli pisciava e gli cagava addosso. Dopo qualche giorno, una bambina lo scoprì, e cominciò a portargli ogni giorno un po’ di banane e qualche bottiglia d’acqua. Poi la guerra finì e lui uscì dalla merda. Si portò addosso l’odore della merda per un lungo periodo.
Finisce il suo racconto e nel suo sguardo credo di notare una scintilla di pazzia… Non ho parole. Mi maledico per la mia stupidità e giuro che non farò mai più domande del genere. Lascio Jean da solo con i suoi ricordi e la sua birra e me ne vado.
Durante la mia permanenza in Ruanda, gli hutu cacciati dall’esercito tutsi cominciano a tornare. Scattano vendette, uccisioni e gli operatori umanitari sono bersagli. In quei giorni (gennaio/febbraio 1997) vengono uccisi 3 spagnoli dei Medici del Mondo, poi 4 funzionari dell’Alto Commissariato per i Rifugiati. Ci sono vari attacchi ad organizzazioni umanitarie. La situazione è veramente pesante e di notte non riesco a chiudere occhio. Voglio andarmene. Conto i giorni che mancano alla partenza. Voglio andarmene e la Somalia mi pare un posto migliore di questo.
Finalmente arriva il giorno della mia partenza e ho la sensazione di essermi salvato. Lascio uscire tutta la tensione accumulata in quelle settimane. Arrivo a Nairobi, dove passo una notte e la mattina presto, proseguo per la Somalia con un volo umanitario. Arrivo a Mogadiscio. C’è il sole, il mare, e un sacco di ragazzi armati fino ai denti seduti sulle tecniche. Ma chissà perché, mi trovo subito bene.
E la corsa? Oggi, 12 chilometri in giro per il centro di Roma a 4’30”. Al biscotto ho incontrato il mitico Gian Luca con un suo amico. Lo vedo bene: domenica andrai alla grande!
Commenti
Grande Karim
Tempo fa ho visto il film Hotel Rwanda....se lo hai visto cosa ne pensi visto che hai potuto vedere di persona quella realtà ?
Gian Carlo: e che te devo dire??? Forse ero stanco per la corsa o è solo il segno del tempo che avanza...
Alvin: ma come potrei mandarti in mona! SOlo che la Somalia saranno tanti, ma tanti racconti!
Alessandro: lo dicono in molt, ma io ci credo sul serio: ho la fortuna di fare il lavoro più bello del mondo.
Sei stato rimandato in Ruanda ?