Back to Somalia

Sarò un po’ sentimentale oggi, invecchiando si ha meno paura di mostrare i propri sentimenti e le proprie emozioni. Fino a pochi anni fa, mi rifiutavo di piangere perché non era cosa “da uomo”, adesso me ne fotto. 
Una sequenza di casualità in un momento difficile della mia vita, un viaggio, un incontro, una macchina che non parte alle due del mattino a Vienna, dopo aver visto Indipendence Day con un fotografo napoletano in vena di confessioni, la sveglia alle 5 del mattino seguente per andare in fabbrica, sveglia che spengo decidendo in quel preciso istante che in fabbrica non ci sarei tornato, un sabato mattina a Roma bussando alla porta di una ONG che da lì a poco mi avrebbe mandato in Somalia. La prima partenza. Difficile descrivere quelle sensazioni. L’aeroporto non era vacanza, ma lavoro, il primo lavoro. Orgoglio. Senso di superiorità verso gli altri che in aeroporto ci andavano a divertirsi. I biglietti erano ancora cartacei, in aereo si poteva fumare, ma solo nelle ultime file e seduti. Avevo paura di volare a quell’epoca, paura inversamente proporzionale alla grandezza dell’aereo. Quando salii su quel beachcraft da 9 posti che da Nairobi mi avrebbe portato a Mogadiscio, quasi mi pisciavo sotto. Quando poi il pilota ci disse che il carello non scendeva e che avremmo fatto un atterraggio di emergenza a Wajir nel nord del Kenya, quasi svenni. Poi il carello scese, manualmente, e l’aereo ripartì lasciando noi, cooperanti italiani, nel mezzo del nulla, con la promessa che sarebbero venuto a prenderci il giorno dopo. Poi vennero a prelevarci dei soldati Keniani, poi fu cena dalle suore, pioggia e zanzare, notte in bianco, ripartenza per Mogadiscio con il mio stomaco in subbuglio. Quanto sarà Wajir a Mogadiscio? Un paio d’ore mi dissero. Ma poi l’aereo si fermò a Belet Weyne, Jalalaqsi, Merka e finalmente a Mogadiscio, io con gli sfinteri stretti al massimo sognando la liberazione che ci fu in un bagno degli uffici della Delegazione Europea a Mogadiscio Nord. Ci passai quasi 6 anni in Somalia. Un battesimo di fuoco. Io, giovane laureato in Agraria, buttato nel mezzo di una guerra civile, fucili e granate e partite a pallone, checkpoint, pistole puntate alla testa, sparatorie, colleghi e amici ammazzati dal piombo o da malattie, io dietro ad un muro bevendo gin e tonic che se devo morire almeno muoio ubriaco, Ali Nibte che mi dice che si sente poco bene e poi morirà di chissà che cosa un paio di giorni dopo, io dietro ad una scrivania dividendo le proprietà di Ali Nibte tra le sue due moglie, un caricatore a te, l’altro caricatore a te, il fucile lo tengo io, la povera Zara, morta di parto mentre dava la luce al figlio di Ali, e tante, tante altre storie e storielle, di morte, risate, sigarette, sbornie e caschi di banane. La Somalia nel cuore. Addio Somalia, ora lavoro con le Nazioni Unite, vado a Roma, dietro ad una bella scrivania e chissà se ci rivedremo. E adesso ci rivedremo. Quindici anni dopo, il giovane laureato è diventato un vecchio laureato, che quando gli hanno offerto di tornare a lavorare in Somalia, non è riuscito a dire di no. L’aeroporto non mi da più nessuna emozione, a volte nausea, e l'aereo non mi fa più paura da un pezzo. Non mi sento più superiore a nessuno, anzi, e l’orgoglio per il lavoro che faccio non c’è più, disillusione tanta.
Fine del sentimentalismo, torniamo alla realtà. Ripresi gli allenamenti con buona costanza. La piscina è quello che è, ma ci si può nuotare. Ieri ho provato le cyclette da spinning e devo dire che ci si allena abbastanza bene. Quindi, tutto perfetto. 

Il body del team... 
La cyclette

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